LA CULTURA CONTRO L’IGNORANZA
Contro questo immane disastro della società non ci rimane che affidarci alle ali della cultura per contrastare i vari demoni del nostro tempo: i politici o, meglio, gli ottusi politicanti che pare abbiano il solo compito di studiare il modo per non lasciarsi sfuggire la poltrona da sotto il culo.
Il senso di questo scritto scaturisce dalla necessità morale, dal vedere la vita appiattita da un’assurda mediocrità, per evidenziare in qualità di artista, la condizione dell’operatore culturale italiano ed in un modo particolare calabrese (quale lo scrivente è) massacrato nelle idee, offeso e vilipeso soprattutto nel concetto di giustizia.
L’arte quindi, intesa come eloquenza, critica, riscatto e lotta ad oltranza nei confronti di una realtà che un vero artista deve rifiutare, sopravvivendo ad essa, per riappropriarsi di quell’autonomia che al sud d’Italia è divenuta pura utopia; non affidarsi al vero mercato, perciò, bensì alla comunicazione e documentazione di ciò che è la vita, per un recupero di responsabilità dell’individuo nei confronti dell’esistenza.
Per un’artista meridionale che intenda l’arte quale sublimazione della cultura, essa diventa soprattutto denuncia, e chi scrive è artista vero che considera l’arte: fatica, dialogo, partecipazione e lotta ad oltranza, libero da pressioni politiche e fuori da schemi precostituiti.
Gli artisti scrivono la storia dell’arte mentre questa racconta la storia del mondo e uno Stato, una Nazione, che non assegnano alcun ruolo trainante alla cultura, sono destinati al più totale fallimento storico.
L’arte e non la pittura posticcia e di abbellimento, è il patrimonio più grande di un popolo e segna lo sviluppo del genere umano; è l’unica coscienza critica che sopravvive alla decadenza del tempo e i grandi artisti hanno il compito di impedire che i politici gestiscano e dirigano l’arte quando dovrebbero, al contrario, semplicemente e più logicamente favorirla.
La nostra è un’epoca in cui non si privilegiano la professionalità, l’intelligenza, l’onestà, la rettitudine eccetera, bensì l’esatto contrario: la disonestà, l’imbecillità, la millanteria, il cattivo gusto e chi più ne ha più ne metta; è l’offesa a tutto ciò che si definisce in buon senso, moralità e dignità.
È il tempo della mistificazione, dei derelitti umani, della mediocrità più assurda in cui allignano gli odiosi parassiti del nuovo secolo.
È, insomma, l’inizio della fine.
Mi chiamo Glauco Dantes Minarchi, espleto la professione di artista (tra le più antiche, belle, difficili e gratificanti professioni dell’uomo) e sono nato in un paese, antico territorio della Magna Gracia nella regione Calabria; un piccolo centro tra i Monti della Sila e il Mar Ionio, che a vederlo in fotografia potrebbe perfino suscitare, in chi lo guarda, sentimenti di invidia per chi ci abita, credendo di trovarvi la pace di un mondo diverso e lontano, nel quale i problemi di tutti i giorni svaniscono per incanto.
In effetti non sarebbe sgradevole averlo come dimora se non fosse sporco quanto una porcilaia e se non fosse circondato da case non più piccole e dai tetti bassi che ne delineavano non molto tempo addietro l’umanità, ma dalle palazzine costruite con i soldi degli emigranti, dai muri grezzi i cui mattoni vedranno l’intonaco dopo molte stagioni, durante le quali i sacrifici e i risparmi si mischieranno alle bestemmie e alle imprecazioni per la lontananza da casa.
Quindi neppure da prendere in considerazione di vivere in questo posto divenuto ormai sgradevole, dove il degrado morale aumenta anno dopo anno, facendo sì che l’insofferenza la faccia da padrona.
Insomma, molti anni orsono, prendendo l’infausta decisione di fare ritorno al paesello natio, non mi rendevo conto che stavo facendo un salto indietro nel tempo, fermandomi in un’epoca assai simile a quella del Medioevo.
Per quanto mi riguarda, e precisando che provengo da famiglia, che da generazioni si è battuta per migliorare la condizione sociale della Comunità in questione, -Casabona -,mi sono trovato catapultato in un ambiente dove ho sentito subito la necessità di fare qualcosa offrendo ai villici del luogo delle opportunità di cambiamento mai avute prima, ma senza avere purtroppo la benché minima probabilità di successo, essendo la sconfitta già insita nelle loro menti, poiché quello che tentavo di costruire era fuori dalla logica di potere dei partiti politici locali e non vi era, a confronto di questi miei sforzi, neppure la presenza fattiva della figura maggiormente gratificata e gettonata in questi ambienti, quella del prete, elevato a rango di eroe e di Santo da un popolo ottuso e mediocre, da affiancare agli insulsi personaggi onnipresenti in ogni luogo, come il cacio sui maccheroni.
Non so se sia mai capitato ad alcuno di osservare un branco di lupi famelici, o più semplicemente un gruppo di cani randagi affamati che nei paesi vagano in gran numero per le strade e di come essi siano pronti ad azzannarsi di fronte ad un bidone della spazzatura, ultima speranza di sopravvivenza dopo una giornata di ricerca infruttuosa di cibo.
Questa è la similitudine più appropriata che mi viene da fare con taluni individui che all’inizio degli eventi che sto per enunciare, mi parvero più simili a pecore sperdute e indifese, senza il pastore che ne aveva perso il controllo.
Ma ciò che mi lascia stordito ed esterrefatto dopo tante esperienze vissute in prima persona, è che, mentre i lupi sono spinti a certe azioni truculente da pura necessità fisiologica, le pecore a cui faccio riferimento si sono rivelate peggio di questi perché, non la fame, bensì l’invidia, l’ipocrisia, la cattiveria, l’egoismo e soprattutto l’ignoranza le spinge, oggi come ieri, a rivoltarsi come iene fameliche contro chiunque si azzardi a volerne cambiare la condizione in meglio.
Infatti, nella presunzione di volermi sostituire al pastore, uso talvolta a servirsi anche del bastone quando la pecora rifiuta di mettersi nel branco e credendo che la logica, il buonsenso, l’esempio e l’impegno potessero stimolare a risvegliare un minimo di amor proprio, ho denunciato abusi e soprusi perpetrati nei loro confronti, dando per questo inizio ,inconsapevolmente, ad un viatico fatto di diffide e umiliazioni di ogni tipo, riversatesi sulla mia persona, avallati da chi la giustizia avrebbe dovuto e potuto farla osservare e non lo ha fatto, perché dal seme di una zucca non può nascere che una zucca, ed una vita mediocre non può che partorire uomini mediocri e scellerati.
E proprio in mezzo alla guerra di tutti i giorni, tra una tregua e l’altra, scavalcando per non inciampare gli innumerevoli feriti da tanta brutalità e cretineria, che ho deciso di mettere sotto forma di scritto questi miei vissuti (pur dopo i numerosi attentati subiti) perché troppo pochi sono coloro che riescono a divincolarsi e a contrastare l’alterigia dei piccoli e arroganti signorotti, rappresentanti della politica, della giustizia e quant’altro.
È qui che sono nato, in un paese il cui nome, Casabona, lascia trasparire ogni buona intenzione e segno di opulenza, dove la gente che lo abita e che vi lavora è solita firmare le buste paga per salari che non percepiranno mai; dove si nominano in maniera impropria legalità e rispetto, e dove i concetti di reciprocità di diritti e doveri vengono continuamente falsati.
È qui che sono nato, tra un manipolo di uomini dove il disinteresse e il lassismo la fanno da padroni, e parlarne è la sola maniera per evidenziare il mio più profondo sdegno, il mio immenso disprezzo per un popolo di ingrati, la cui facciata di perbenismo nasconde le più grandi nefandezze e dove la stragrande maggioranza delle persone è ancora dedita a quell’antico gioco detto dello scaricabarile.
Voglio parlare di una comunità arroccata su una collina, ad un tiro di schioppo dalla provincia di Crotone, ingabbiata nel cemento armato in cui non è mai esistito un entroterra culturale; una comunità dove avviene di tutto e tra uno scasso e l’altro nelle locali scuole, tra un furto e l’altro, nella Casa comunale, nel susseguirsi di una infinità di azioni indegne, sempre mimetizzate e minimizzate, onde evitare il discredito del paesello; tra un assassinio e una festa paesana, si tira avanti facendo a gara nel leggere i salmi durante la messa e a lavare il pavimento della sacrestia, a dimostrazione di una diversità inesistente da colui che delinque.
Un ambiente che non è mai mutato sia nel bene che nel male, fuori dall’universo e dagli avvenimenti che determinano la storia, forse più incattivito da quando la gente ha smesso gli abiti della povertà per vestire quelli dei falsi ricchi.
Io non so quanti credono ai demoni e come ciascuno se li raffiguri, personalmente non ho dubbi sulla loro esistenza: essi sono fra noi, mimetizzati da persone dabbene e fanno di tutto per avvelenarci l’esistenza e nel mio paese ce ne sono annidati in gran numero.
Casabona, un paese del meridione qui descritto, dove la vita, se così si può definire, si svolge indegnamente e in modo teatrale nella piazza del paese, dove il vituperio e la maldicenza sono le maggiori incombenze a cui sono dediti i suoi abitanti; dove l’invidia e l’ottusità rappresentano le qualità migliori da sfoggiare insieme ai capi d’abbigliamento firmati e pagati con i proventi di un odioso assistenzialismo statale.
Dove la maggior parte dei suoi abitanti evade il fisco e tutti però indistintamente gareggiano nel voler dimostrare d’essere eccellenti parrocchiani e timorati di Dio.
Mai in sessant’anni della mia travagliata esistenza, nei posti in cui ho vissuto e lavorato, ho assistito all’apoteosi di tanta cattiveria e stupidità.
Tutto nella norma, insomma, se non fosse per un pregio che lo distingue dalle altre comunità del crotonese; infatti, i suoi abitanti odiano quanti possiedono un normale quoziente intellettivo, quanti desiderano vivere da galantuomini, nonché tutti coloro che rifiutano la condizione di lacchè.
Sono orgogliosi dei delinquenti che il paese partorisce, tanto quanto di coloro che amministrano (si fa per dire) la cosa pubblica, i quali, protetti da uno stato di Diritto fatiscente, assumono alla luce del sole, atteggiamenti da mafiosi e comportandosi come tali, senza vergogna e indisturbati.
Casabona, un paese di poveri disgraziati, perché poveri nell’anima, mediocri, superficiali e in molti casi incivili; una comunità non in cerca di una storia perché altri l’hanno scritta per essa, ingigantendo fatti o inventandoli, in cui vengono esaltati i ladri e filibustieri di ieri e di oggi che paiono uscire fuori da un fumetto umoristico o da una tragedia shakespeariana.
I fatti descritti fanno riferimento non solo al paese in questione, ma vanno oltre e abbracciano problematiche mai risolte che interessano tutta una regione e pretendono di avere valenza di forte denuncia non solo nei confronti dei guitti che li hanno determinati, ma soprattutto nei riguardi di chi, pur sempre opportunamente informato, abbia fatto orecchie da mercante, contribuendo alla creazione e al potenziamento di quelle associazioni criminali meglio conosciute come mafia, camorra o ‘ndrangheta, e di come gli uni e gli altri abbiano ormai tolto alla regione Calabria quella parvenza di dignità per cui chi vive in questo disgraziato lembo di terra, trova difficoltà a dirne bene.
In questi decenni, ho assistito a storie a dir poco indecenti, sia per averle vissute personalmente, sia per averne avuto sentore attraverso i mezzi di comunicazione e di informazione, come ad esempio: procuratori antimafia, politici, e quant’altri, recarsi nelle patrie galere e stringere la mano a delinquenti della peggior specie, assassini, ladri, stupratori, pentiti, ecc. che per definizione sono dichiarate “persone”, ma al contrario, se un cittadino come lo scrivente, osa offrire collaborazione alla giustizia, piuttosto che verificare la veridicità delle sue affermazioni o portandolo in tribunale e condannarlo in caso di palesi menzogne, lo si ignora (per convenienza o inefficienza) , trattandolo con aria di sufficienza in un primo tempo e facendogli in seguito bruciare le autovetture, tentando di terrorizzarlo e intimorirlo con ordigni dinamitardi, dileggiandolo, offrendolo in pasto ai benpensanti, sospendendolo dal lavoro fino ad additarlo come un volgare delinquente e tentare quindi di distruggerlo insieme a tutto il proprio nucleo familiare.
Questa è la giustizia cui ci si dovrebbe affidare in Calabria, una regione che conta oltre trecento comuni gestiti quasi tutti da vere e proprio bande mafiose, legalizzate dal qualunquismo dall’inerzia della politica e della giustizia stessa e quanti hanno la sventura di finire nelle sue maglie intricate dove non si capisce più chi sia il buono e chi il cattivo, vengono fatti oggetto ai classici colpi di lupara o, peggio, ammazzati il giorno dopo giorno nella loro integrità morale, nel loro orgoglio, nel disconoscimento della persona giuridica: capri espiatori privati della libertà di pensiero, resi esseri amorfi, servi della gleba; un numero anagrafico, insomma, un oggetto sgradito da prendere a calci, fino all’atto ultimo della eliminazione fisica.
Resta sempre più pervasiva un’emergenza qui nel meridione, la criminalità organizzata, considerata un’associazione anti Stato (se esistesse uno Stato), perché quest’ultimo è assente, anzi del tutto inesistente; perciò, sono queste associazioni che amministrano sia la pubblica amministrazione che la giustizia, direttamente o indirettamente.
Se ne deduce, quindi, che sviluppo, legalità e democrazia sono parole del tutto demagogiche, astrazioni e il cittadino qualunque, il tanto declamato omertoso da cui tutti pretendono tutto, diviene il paravento che nasconde ogni malefatta, colui che deve pagare per tutti. Per farla breve, in questo posto, come in tutto il Meridione d’Italia, la giustizia sarà sempre pura e semplice utopia.
Tale sfacelo ha inciso profondamente nella mia vita privata e di artista e poiché l’arte è la sublimazione della cultura, questa non può essere espressa che in maniera forte e violenta verso una comunità e nei confronti di una società di valvassini che nulla hanno da trasmettere ai propri figli se non una grande codardia fisica ed intellettuale, unitamente all’unica speranza che è quella di riporre per tutta la vita il proprio pane nelle mani altrui.
Una fatalistica rassegnazione, una sorta di scoraggiamento continuo ha da sempre contraddistinto la vita del meridionale che vive in un mondo disorientato, avvilito, disperato; un mondo che si è voluto strappare con violenza al suo passato tenendolo legato ad un presente di miseria morale e di disperazione civica e sociale; un mondo in cui abbondano però le tarantelle in piazza e le statue in gesso raffiguranti i santi portati in processione.
Oggi è in questo sottosviluppo che i santi inquisitori stanno riprendendo spazio, promettendo inferno e dannazione, tra una fiaccolata e l’altra, a chi non è disposto a battersi il petto e sgranare rosari.
Questo è l’ambiente nel quale vivo e opero e queste sono le ragioni che mi hanno spinto ad interessarmi di quelle persone che pensavo si sarebbero schierate dalla mia parte e che hanno reso nullo l’esempio personale per avere offerto loro delle opportunità di cambiamento mai avute prima.
Un grave errore di valutazione da parte mia che ancora oggi sto pagando duramente in questo piccolo, meschino mondo, popolato da potenti e prepotenti, pronti a scendere a patti con chiunque e che non hanno mai smesso di lesinare mezzi pur di impedire che qui fiorisse una vera cultura.
Sono come i lupi prima menzionati che braccano la preda; stanno acquattati dapprima a debita distanza per studiarne le mosse, per poi balzare addosso e sbranarla, ma non è la sola vittima, poiché l’odore del sangue attira altri lupi e in un paese senza legge e senza giustizia, poiché cane non mangia cane., essi possono facilmente spadroneggiare e azzannare nella generale indifferenza, anzi nel plauso generale, poiché l’inerzia, l’invidia e la malvagità dei più, non si vedono tutelate dal coraggio del singolo, mentre i mentecatti non hanno avuto mai piacere dal fatto d’essere messi di fronte ad uno specchio a riflettere la loro stessa bile.
Questa terra di Calabria non è vero che sia dimenticata da tutti!
Essa è dimenticata da coloro che non vogliono che cambi, perché in questo contesto surreale e anacronistico che riescono meglio a collocarsi i fannulloni, i parassiti, i delinquenti, gli imbecilli, gli infami.
Il mio paese e la mia regione sono perfettamente inseriti in questo contesto; infatti, nello svolgersi lento, del giorno e della notte, qui ogni cosa diventa possibile, dove l’opulenza ha reso i suoi abitanti arroganti, stupidi, altezzosi, intriganti; dove, ad esempio per gravi motivi di ordine pubblico, non è ai tutori dell’ordine che bisogna rivolgersi, visto che tra l’altro gran parte di essi vengono impegnati a fare i buoni e ad esportare la democrazia in altre parti del mondo, bensì agli stessi mafiosi che li determinano.
Casabona, una comunità dove tutti si conoscono e si chiamano per nome e nella quale, tra le caratteristiche più importanti, si evidenzia un Don Abbondio di dubbia onestà, super protetto da una magistratura più che compiacente nell’avallarne le malefatte, il quale si è perfettamente adeguato a tantissima brava gente, assoggettata e schiavizzata da generazioni, che oggi ha mutato abito e titolo, ma che ha mantenuto intatti gli stemmi con le palle.
Dove finanche i neonati oggi, possono comodamente defecare nei vasetti di plastica raffiguranti animali o personaggi dei cartoni animati, con grande soddisfazione ed invidia dei loro genitori che invece per intere generazioni si erano puliti il culo con pietra levigata o ciuffi di fili d’erba, nascosti dietro i filari di fichi d’India che abbondavano per tutti i cantoni delle vie o nelle grotte naturali di cui è circondato il paese e che oggi vogliono far passare per “grotte bizantine”, per frodare lo Stato con progetti miliardari.
Infine, da circa un ventennio anche qui, per fortuna, non siamo costretti ad invidiare i delinquenti dei paesi vicini; oggi, con grandissima soddisfazione li produciamo in proprio e con sommo orgoglio, considerato che rappresentano la sola e vera industria fiorente della zona.
Peccato che talvolta qualcuno di loro ci lascia la pelle, ma solo per una fottuta sfortuna e non certamente a causa dell’intervento dei tutori dell’ordine che, fatta qualche rara eccezione, convivono tranquillamente con questa gente, senza timori e senza vergogna e che hanno passato gli ultimi vent’anni a controllare lo scrivente, pare senza successo, piuttosto che rendere la vita difficile ai ladri, ai drogati e ai delinquenti di cui è pieno il paese.
Si potrebbe definire la comunità che mi ha visto nascere, non un postribolo come da più parti viene definito, ma un vero e proprio Eden dove l’abuso rappresenta la regola e la vita piatta dei villici che lo abitano è regolato dalle Novene e dai Rosari.
La loro maggiore aspirazione è quella di essere eletti a sindaco e una volta riusciti in questa ardua quanto improbabile impresa, se non si ha un parentato grande ed un culo adeguato alla circostanza, la vita si svolge tranquilla tra una spaghettata e una partita a tressette, fra una telenovela e qualcuno morto ammazzato.
Inoltre, non è necessario che egli sia colto, tutt’altro, è una condizione che supera facilmente soltanto andando a Messa la domenica e genuflettendosi a tempo e a modo secondo le convenienze del momento.
Noi tutti siamo consapevoli che oggi viviamo nella finzione, nella imposizione della menzogna, la quale è talmente generalizzata che la verità sembra definitivamente perduta e con la verità anche ogni rapporto con la realtà; un immenso teatro dove i furbi recitano la parte dei vincenti.
Per questo il vero artista, uomo sensibile, di cultura, attento ai fatti della vita, può ancora rappresentare colui che è in grado di prendere parte attiva in questa rappresentazione grottesca e muoversi con gli altri personaggi in un mondo diverso dove ciascuno è obbligato a fare i conti con la propria coscienza.
Viviamo in una società permeata da intrighi politici e intrallazzi di ogni tipo, dove ciascuno i propri diritti non li può chiedere che a bassa voce; dove si spara e si uccide per poco o niente; dove si riduce la questione politica ad un semplice gioco elettorale, una lotta tra clan in cui si vince o si perde, una grande riffa nella quale chi vince si diverte a prendere a calci in culo quella razza in estinzione che sono i galantuomini.
Questi miei compaesani, unitamente al prete di questa comunità, sono talmente immersi nella vita di ogni giorno che ne hanno assimilato più di ogni altro, l’essenza stessa: conciliano con grande naturalezza la bandiera rossa e la festa dell’amicizia e possiedono tutto meno che l’umiltà dall’obbedienza, lo spirito di carità.
Questa è una delle motivazioni che non lasciano determinare cambiamenti di rilievo nella vita della gente, dove tutto è regolato dal suono delle campane e da chi le fa suonare; in tal modo impera e prende piega la rassegnazione e si accantona la speranza.
Le mie recenti esperienze hanno infatti offerto prova della loro arroganza, poiché chi ne avalla l’operato risulta essere peggiore di colui che l’azione la commette; ma non esiste spazio nel cuore della gente per la rabbia o l’indignazione, ed essa trova sempre molto più comodo fare riconoscere il Cristo secondo le convenienze del momento.
Il meridione è costellato di eccessi di carità cristiana e trovano in questa regione somma comprensione, specie da parte di quella schiera di demagoghi politici che hanno assunto un linguaggio ed un comportamento da chierichetti, senza però mai abbandonare l’uso improprio della prevaricazione.
Comunque, malgrado la grande verità scritta da Freud secondo cui sopportare la vita rimane, tutto sommato, il primo dovere di tutti gli esseri viventi, io non riuscirò mai a sopportare la tracotanza smodata di questi esseri elevati dai creduloni e semplicioni a rango di santi e di eroi, poiché i fatti dimostrano che sono né gli uni né gli altri.
Mi chiedo: è forse questa la Calabria che dobbiamo difendere?
Vivere nel Meridione d’Italia per una persona che non si vergogni d’essere retta, vuol dire affrontare con nausea ed impotenza questa realtà, ma possiamo almeno tentare di modificarla se di questa terra intendiamo più del colore e del folclore, lo spirito.
Malgrado accada tutto questo, non si riesce più a protestare perché manca una coscienza politica, cui si aggiunge uno smarrimento di identità terribile; non esistono più le stagioni della vita e si è vecchi senza aver vissuto la giovinezza.
Si può morire di morte naturale ma ancora peggio quando, prima della morte, sopraggiunge alla sofferenza dello svilimento delle idee, la morte indolore della sopraffazione, la morte degli ideali.
Una società equilibrata, necessita non di partiti politici e di scomposte ideologie, non di monache e preti invadenti, non di uomini in divisa che usano la testa solo per poggiarvi il cappello, non di mafiosi e sogni ad occhi aperti, ma solo di uomini che sappiano soffrire, patire e morire in nome della coerenza verso le proprie idee e che siano interpreti delle coscienze dei processi di cambiamento in atto, poiché anche per coloro che tentano di frenare il futuro, l’evoluzione dei tempi avviene comunque, essi possono solamente rallentarlo.
Si potrebbe pensare che questi fatti siano soggettivi, la normalità sia un’altra, ma non è così; sono più frequenti di quanto non si creda, solo che invece di farci incazzare e ribellare, non trovando la forza interiore necessaria per farlo, generalmente ogni cosa viene dimenticata dietro le vulgate televisive, nell’ambiguità dell’informazione, nell’appiattimento di un modo di vivere scialbo ed in questo ristagno dei sensi, non riuscendo a colpire il sistema, si colpisce il singolo.
Gli ignoranti rappresentano il più grande pericolo per l’umanità e giustificarli nelle loro azioni è un grave danno che si arreca all’intero universo, poiché non sono ciechi e non sono sordi; essi vedono e capiscono come tutti, solo che il loro pane e riposto nelle mani altrui; sono controllati, minacciati, non hanno libertà né sicurezza.
Inoltre, non hanno convinzioni né passioni: stanno affacciati, anzi, nascosti dietro i portelli delle finestre senza pensare, spiando la vita, scopando al massimo il pavimento della Chiesa.
Quanto fin qui illustrato sta a dimostrare tutta la povertà che invade l’animo umano, al posto di quella religiosità che la gente dovrebbe possedere e per la quale personalmente ho pagato un prezzo che non vale l’amarezza che oggi mi costringe a queste aspre e amare considerazioni.
La sola speranza rimasta è quella di fuggire da questa miseria culturale; ritardare l’agonia in cui è immersa questa società sterile non serve, visto che non può partorire alcuna probabilità di vita diversa per le future generazioni, specie quando all’ignoranza si accompagna di solito la barbarie nelle azioni.
Consapevoli, perciò, di trovarsi soli in un deserto e che urlare le proprie ragioni è inutile secondo i canoni ufficiali, ho pensato di affidare ad INTERNET tutta la mia rabbia nella speranza che ne venga colto il senso è che possa trovare sbocchi futuri, poiché in questa terra mi pare di vivere in un paese straniero, da extracomunitario, tra gente che si sgomita, dagli sguardi assenti e come se assistessero ad un dramma dove ognuno recita da semplice comparsa.
Vite vuote, spezzate dai dolori quotidiani, senza motivazioni né interessi, prive di alcuno stimolo, separati da ciò che li circonda, abbracciati da una folle solitudine, dalla stretta mortale di draghi infuocati e dalle spire di orrendi serpenti infernali.
Un’epoca cinica nella quale non si distingue più il vero dal virtuale, una tempesta di mutamenti che tutto travolge, che sembra preservarti dagli avvenimenti che si vedono in lontananza, ma al tempo stesso tanto veloce e violenta che l’ansia ci stringe lo stomaco togliendoci il respiro.
Una sensazione fredda e maligna che annulla gli scopi e i desideri delle persone normali; un’area rarefatta che ci rende sconosciuti anche a distanza ravvicinata.
Individui che non possiedono l’orgoglio dell’appartenenza, gente che si sente smarrita senza un “capo” che li imbocchi perché non hanno progetti e quindi un futuro, mentre tutto ciò ci rimanda alla definizione di uomo, il quale diventa e può definirsi tale soltanto attraverso l’affermazione dei propri valori.
Il popolo meridionale si lascia facilmente conquistare, deridere, violentare, senza reagire, in quanto si accontenta dell’osso che gli viene lanciato e di qualche festa in onore del Santo Patrono al quale delega ogni problema; questo popolo che è la parte peggiore dell’Italia che non ha rispetto per chi soffre, per chi è diverso, per il valore professionale e individuale; un popolo suddito del potere vaticano, che non si è mai liberato dal potere massonico strisciante e che non si è mai sforzato di rompere gli anelli di quella catena a cui sono stati legati per generazioni i loro padri; una catena che li ha tenuti legati al bisogno, schiavizzati da secoli e che ora sta strangolando i loro figli.
Un popolo che non possedendo alcun valore per sé stesso, non ha nulla da trasmettere alle future generazioni, delle quali poi ci si meraviglia che si rifugino nell’illusione di un mondo virtuale nel quale impera la droga, il vero totem da adorare dei giorni nostri.
Un popolo che non trova la forza per ribellarsi di fronte al terribile decadimento culturale di questa nazione; un popolo che si vergogna di prendere sotto braccio le proprie madri, i propri padri, i propri amici quando ne hanno bisogno, delegando all’extracomunitario questo suo imprescindibile dovere, ma riuscendo al contrario, a trovare i propri punti di riferimento soltanto dietro lo sventolio delle bandiere inneggianti ai partiti politici, negli schiamazzi delle piazze, nei girotondi e nelle fiaccolate.
Squallore, nient’altro che squallore in questo mondo popolato da cialtroni e ciarlatani. E quei pochi diversi? Pazzi furiosi, secondo i luoghi comuni, ai quali va messo il bavaglio, moscerini o elementi estranei da distruggere da parte delle maggioranze che hanno inventato la democrazia, la quale non è altro che la capacità di imporre alle minoranze il proprio volere.
Perciò il coraggio dovrebbe nascere dallo sdegno di ciò che si vede; il problema è che oggi, nessuno si sdegna facilmente e si trascina stancamente di anno in anno, fino alla fine, nell’appiattimento più totale, fino a disperdersi nei fuochi d’artificio fatti brillare in onore del Santo protettore.
In questa circostanza, un’artista dovrebbe essere il custode dell’anima di un paese, la fiaccola della libertà; dovrebbe rappresentare l’equilibrio là dove c’è disordine e in questa veste personalmente mi sento completamente fuori posto in una società libertina e mediocre, mentre la comunità che mi ospita è in sintonia con un mondo superficiale che non è neppure capace di disperarsi di fronte alla pochezza della vita.
Esiste però qualcosa che ci appartiene e che alcuno potrà mai toglierci, una ricchezza concessaci in dote dal momento che apriamo gli occhi su questo mondo: sono l’orgoglio e il coraggio delle nostre azioni, che ci distinguono e qualificano come uomini durante il corso della nostra esistenza e che fanno la differenza tra uomini e ominicchi, la stessa differenza che passa tra pittori pittorucoli della domenica e artisti.
In questo ambito sociale mi inserisco con fatica come autore e la mia maniera di fare arte, aprendomi alla narrazione della quotidianità con i miei interessi e le mie aspirazioni, che sono le aspirazioni dell’uomo medesimo che cerca l’esodo dal tumulto delle scialbe invenzioni o correnti culturali, per arrivare al puro raziocinio determinante le logiche degli avvenimenti.